Direttori del personale: le aziende italiane promuovono la parità di genere

In base ai risultati di un’indagine promossa dall’Associazione Italiana per la Direzione del Personale (Aidp), l’85% dei direttori del personale ritiene che le proprie aziende promuovano attivamente la diversità e l’inclusione,  Nello specifico, il 52% dei manager ha risposto in modo positivo, il 33% ha affermato che sì, ma non abbastanza, mentre il 15% ha risposto negativamente. Questi dati emergono dal sondaggio condotto dal Centro Ricerche Aidp, guidato dal professor Umberto Frigelli, che ha coinvolto circa 700 direttori del personale, di cui oltre il 63% rappresentato da donne.

Promosse politiche sulla parità 

Più del 60% dei partecipanti ha confermato la presenza di donne in ruoli apicali e di responsabilità nelle proprie aziende, mentre il 33% ha indicato che ci sono, ma non a sufficienza. Complessivamente, il 93% dei direttori del personale ha espresso una valutazione positiva, seppur con alcune riserve. Solo il 7% ha risposto negativamente.

Riguardo alle politiche aziendali sulla parità di genere, oltre il 53% ha affermato di sì, il 19% ha risposto sì, ma non abbastanza, e il 17% ha detto di no. Per quanto riguarda la partecipazione a iniziative contro la discriminazione di genere, il 51% ha risposto in modo positivo, mentre il 49% ha dato un riscontro negativo.

Le aziende favoriscono un dialogo aperto

L’85% dei direttori del personale ritiene che le proprie aziende favoriscano un dialogo aperto sulla diversità e l’inclusione, mentre oltre il 92% afferma che sono garantite pari opportunità di formazione e sviluppo professionale per le donne. L’83% ha dichiarato che esistono politiche di flessibilità con un’attenzione particolare al genere femminile.

Sul fronte dell’equità retributiva tra donne e uomini, il 50% ha espresso un parere positivo, il 25% ha detto sì, ma non abbastanza, e oltre il 17% ha risposto negativamente. L’83% dei direttori del personale è a conoscenza della certificazione della parità di genere, con il 38% che ha già attivato un audit.

C’è ancora strada da fare

Per quanto riguarda gli episodi di discriminazione, l’87% dei direttori del personale non è a conoscenza di atti di bullismo o maschilismo, mentre il 72% ritiene che chiunque possa segnalare liberamente fenomeni di discriminazione di genere. Il presidente nazionale di Aidp, Matilde Marandola, ha commentato questo doppio aspetto: “Da un lato una percentuale elevata di responsabili delle risorse umane che descrive un contesto positivo, dall’altro la presenza di una percentuale non trascurabile di riscontri negativi, come ad esempio gli atti di discriminazione che richiedono un intervento nell’immediato così come altre aree di miglioramento da implementare. Sicuramente l’obiettivo è giungere a percentuali piene e assolute di parità”.

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Rischi emergenti: cambiamento climatico al 1° posto, ma preoccupano anche AI e inquinamento

Lo attesta la decima edizione del ‘Future Risks Report’ del Gruppo AXA: dal 2018, con l’unica eccezione nel 2020, quando il rischio maggiormente percepito era legato alla pandemia, in tutti i Paesi del mondo il cambiamento climatico si conferma in cima alla classifica dei rischi emergenti.
Anche in Italia continua a essere la minaccia maggiormente percepita, seguita da inquinamento e nuove malattie.

Tra le novità a livello globale, il rapido salto in avanti dell’Intelligenza artificiale.  
La classifica è stata realizzata in collaborazione con IPSOS attraverso un sondaggio internazionale che ha coinvolto 3.500 esperti e 20.000 cittadini. Obiettivo, comprendere e valutare la percezione della minaccia e dell’impatto dei rischi emergenti sulla società.

Esperti in allerta: guerra cyber legata a instabilità geopolitica?

Nel 2023 i rischi cyber entrano nella Top 3 della popolazione generale, mentre per gli esperti erano sul podio già da 6 anni. Ma gli esperti quest’anno evidenziano anche il rischio di una guerra ‘cyber’, collegandola al rischio di un’instabilità geopolitica, che occupa la terza posizione della classifica.

Tra le novità, a livello globale, anche la preoccupazione sui rischi legati allo sviluppo dell’Intelligenza artificiale e dei Big Data, che registrano il maggior aumento nella classifica degli esperti, passando dal 14° posto nel 2022 al 4° posto nel 2023.Si tratta di un tema su cui emerge ancora la scarsa consapevolezza dell’Europa, e in particolare dell’Italia, dove nella Top 3 dei rischi maggiormente percepiti dalla popolazione viene posto l’inquinamento, mentre persiste, al 3° posto, il timore per nuove pandemie e malattie infettive.

Aumenta il senso di vulnerabilità

“Alla base – commenta Giacomo Gigantiello, ceo del Gruppo assicurativo AXA Italia – c’è un persistente senso di vulnerabilità avvertito delle persone”.
Il senso di vulnerabilità resta infatti elevato in tutto il mondo: a livello nazionale l’84% degli esperti (erano il 76% nel 2020) si sente più vulnerabile rispetto a cinque anni fa e a livello locale lo è il 73%. Era il 64% nel 2020.

Una tendenza evidente anche nella popolazione generale, con un aumento di chi si sente vulnerabile del 7% in tre anni, sia a livello nazionale sia locale.
A livello europeo, i cittadini italiani sono tra coloro che avvertono un maggiore senso di vulnerabilità.

Cresce la fiducia nelle assicurazioni

Tuttavia, in controtendenza rispetto al 2022, cresce a livello globale la fiducia nei confronti dei diversi attori coinvolti nel limitare le conseguenze di nuove crisi globali, con un chiaro ruolo assegnato agli assicuratori.

In Italia, il 30% dei cittadini sostiene che le istituzioni sono preparate a gestire i rischi legati al cambiamento climatico (vs 27% del 2022), e rispetto al 2022 cresce anche la convinzione che il settore privato possa dare un contributo importante a questo tema (31% vs 26% 2022).
Il 92% degli esperti e il 65% dei cittadini italiani (primi in Europa insieme agli spagnoli) ritiene, poi, che le assicurazioni avranno un ruolo importante nel limitare l’impatto dei rischi futuri sulla società.

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Lo stato delle acque in Italia… fa acqua 

L’Italia è terza in Europa nella classifica dei paesi con maggiori disponibilità di acqua, dietro solo a Svezia e Francia, e allo stesso tempo è il paese con i maggiori consumi pro-capite di acqua potabile (oltre 220 litri giornalieri) e il secondo per consumi in agricoltura.

In Italia ogni anno vengono prelevati oltre 30 miliardi di metri di cubi di acqua per tutti i tipi di uso: siamo al primo posto tra i Paesi Ue per la quantità di acqua dolce prelevata per uso potabile da corpi idrici superficiali o sotterranei.
In termini di prelievi pro-capite, con 155 metri cubi annui per abitante, siamo in seconda posizione, preceduti solo dalla Grecia (158) e seguiti da Bulgaria (118) e Croazia (113).
Emerge dallo studio realizzato dall’Istituto Eurispes sullo stato delle acque in Italia.

Un sistema infrastrutturale antiquato

Negli ultimi anni, numerosi studi hanno evidenziato una costante riduzione della quantità di acqua rinnovabile presente sul nostro territorio. Le proiezioni climatiche condotte da ISPRA evidenziano i possibili impatti a breve, medio e lungo termine dei cambiamenti climatici sul ciclo idrologico e sulla disponibilità di risorsa idrica.

In tema di risorse idriche la principale criticità nel nostro Paese riguarda la presenza di un sistema infrastrutturale antiquato e disfunzionale, concepito sulla base delle necessità degli anni Cinquanta.
L’esempio più emblematico riguarda le perdite idriche nella rete di distribuzione, che nel 2020 sono state pari al 42,2% del volume di acqua immessa. Il che equivale a una perdita pari a 3,4 miliardi di metri cubi di acqua ogni anno.

Adattarsi ai cambiamenti climatici

L’ammodernamento e il rifacimento della nostra rete idrica è forse uno degli elementi più urgenti da affrontare per recuperarne almeno una parte.
D’altro canto, risulta difficile aspettarsi alti livelli di efficienza da una rete che per il 60% risale ad almeno trent’anni fa, e di cui il 25% ha superato i 70 anni di vita. In diversi centri storici italiani, poi, le tubature risalgono addirittura al periodo post-unitario.

Diventa pertanto sempre più urgente adottare misure di adattamento ai cambiamenti climatici, che favoriscano un uso più razionale ed efficiente delle risorse a nostra disposizione.
Bisogna però prendere atto che la crisi idrica non è dovuta solamente a una carenza, spesso momentanea di materia prima, ma è piuttosto dovuta alla mancanza di impianti e reti adeguate sull’intero ciclo dell’acqua.

Occorre investire con urgenza 

In assenza di investimenti che possano favorire la captazione, l’immagazzinamento, il trasporto, la distribuzione, la depurazione e il riuso delle acque si rischia di cronicizzare il problema rendendo la mancanza d’acqua una questione strutturale. Come, tra l’altro, sta avvenendo in altre aree del pianeta.

Questo rischio è già evidente al Sud, dove la fatiscenza o la totale assenza delle reti (si pensi ad esempio alla mancanza di allacci al sistema fognario in parte della Sicilia), sommate all’apparente incapacità degli Enti gestori di effettuare gli investimenti necessari, creano condizioni di stress idrico, spesso aggravate dalla mancanza di disponibilità della risorsa.

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Donne manager: in Italia sono poche e stressate 

Le donne italiane che ricoprono ruoli apicali non sono soddisfatte, e se il numero delle manager aumenta resta ancora lontano da quello degli uomini. Ogni 3 manager 2 sono uomini, una è donna. E secondo gli ultimi dati di Manageritalia il rapporto peggiora nei ruoli di maggiore responsabilità: su 5 dirigenti solo una è donna.
Ma quante donne manager sono felici? A questa domanda risponde lo studio Do satisfaction, gender issues, and financial inclusion impact Italian female managers? realizzato dalle economiste Rosella Castellano (Università Unitelma Sapienza di Roma), Jessica Riccioni (Università di Roma Tre) e Azzurra Rinaldi (Università Unitelma Sapienza di Roma), che analizza la soddisfazione professionale delle donne manager italiane in relazione a vita lavorativa, personale e welfare per le famiglie.

Cosa rende infelici le manager italiane?

I grandi motivi di insoddisfazione sono tre: stipendi, carico lavorativo, difficoltà nel conciliare lavoro e vita privata L’equilibrio tra vita lavorativa e personale, il work-life balance, è un problema per 4 manager su 10, ed è e la prima causa di insoddisfazione nella fascia 40-50 anni. Su questi dati incide il welfare italiano, ritenuto insufficiente soprattutto a fronte dell’enorme pressione fiscale. Il sistema di welfare incide poi sulle scelte di vita delle manager. “La decisione di avere figli è legata alla presenza di servizi capillari e accessibili – spiega Azzurra Rinaldi al Corriere -. Al Nord, dove ci sono più servizi per bambini e anziani, il livello di soddisfazione è più elevato”.

Il welfare da solo non basta

Inoltre, “c’è un sistema di valutazione interno alle aziende che spesso penalizza le figure apicali che si allontanano troppo spesso dall’ufficio, come nel caso della maternità”, aggiunge Rinaldi.
Spesso le lavoratrici, soprattutto in posizioni apicali, si trovano a dover scegliere tra essere brave mamme o brave manager, senza considerare il tempo da dedicare a sé stesse. Ma per una manager su 3, uno dei principali motivi di insoddisfazione lavorativa è la mole di lavoro, eccessiva e stressante, soprattutto per le over 50. A differenza di altri Paesi, in Italia “Abbiamo ancora una cultura novecentesca, di presenza fisica – continua Rinaldi -. Soprattutto al centro-sud tendiamo a stare molto a lavoro anche se questo non ci rende più produttivi, anzi”.

Il gender pay gap non è un problema solo italiano

Il 17% delle manager dichiara di ricevere uno stipendio insufficiente o comunque più basso di quello dei colleghi, mentre 4 su 10 hanno subito il gap almeno una volta. Il 65% poi riscontra discriminazioni nelle carriere manageriali. Entrambe le tendenze sono più forti nelle piccole imprese, ma il problema non è solo italiano: “Nessun Paese ha superato il gender pay gap”, osserva Rinaldi. Insomma, a tutti i livelli, a parità di mansioni, qualifiche e tempo speso in azienda, le donne vengono pagate meno. I numeri testimoniano però un miglioramento. A far ben sperare per il futuro, riporta Adnkronos, è soprattutto la maggiore sensibilità delle aziende giovani per il gender gap e in generale per le tematiche Esg.

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Il turismo enogastronomico conquista i viaggiatori italiani ed europei 

È quanto emerge dalla sesta edizione del Rapporto Sul Turismo enogastronomico italiano’, curato da Roberta Garibaldi: nel 2023 saranno circa 5,5 milioni gli europei che viaggeranno per “motivi” enogastronomici. Ma continuano a crescere anche gli italiani che scelgono l’enogastronomia come motivo principale di un viaggio, riferisce Adnkronos. Nel 2023 il 58% degli italiani (+37% rispetto al 2016) ha compiuto almeno un viaggio con principale motivazione legata all’enogastronomia. In termini assoluti la stima è a circa 9,6 milioni.

Una vacanza a tema cibo, vino e birra

D’altronde la ricerca di esperienze a tema cibo, vino e birra non è una peculiarità di questi turisti, perché interessa ormai tutti i viaggiatori del Belpaese: 7 su 10 ne hanno svolto almeno cinque nel corso dei viaggi più recenti (+25% sul 2021).
E secondo il Rapporto le prospettive per quest’anno sono positive. Nonostante la crisi, circa 1 turista italiano su 3 dichiara di avere un budget superiore al 2022 da dedicare all’acquisto delle proposte enogastronomiche. Alta è la partecipazione a tutte le tipologie di attività, esperienze culinarie nei ristoranti (94%), visite ai luoghi di produzione (74%), eventi (60%), proposte attive (54%) e itinerari tematici (48%).

Esperienze a 360 gradi, accessibili e facilmente acquistabili

Sono quattro le principali tendenze del turismo enogastronomico evidenziate dal Rapporto. 
La prima è ‘Varietà, esperienze a 360 gradi’. I turisti italiani vogliono scoprire mete nuove (63%) e diversificare l’esperienza, ricercando proposte autentiche e sperimentando attività sempre diverse a contatto con la natura. Cresce poi l’attenzione verso le esperienze in tutti i luoghi di produzione. Non solo cantine, ma anche i caseifici.
La seconda tendenza è ‘Frictionless. Accessibili e facilmente acquistabili’. Così devono essere le esperienze per il turista. Il gap tra interesse ed effettiva fruizione è ancora elevato: il viaggiatore oggi deve essere messo nelle condizioni di poter reperire facilmente le informazioni, scegliere e prenotare le proposte disponibili. Non è quindi un caso che se il 63% degli intervistati dichiara di voler prenotare le visite alle aziende di produzione online, solo il 23% le ha acquistate dal sito e il 20% tramite intermediari online.

Attenzione alla sostenibilità e al benessere

La terza tendenza è ‘Green & social’. Il turista italiano è sempre più attento alla sostenibilità, evita di sprecare cibo al ristorante (65%) e in vacanza ha comportamenti più rispettosi dell’ambiente rispetto a quando è a casa (54%). Mostra, inoltre, un forte desiderio di stare a contatto con la comunità locale e di contribuire al benessere sociale attraverso il suo viaggio. Aumenta poi la destagionalizzazione dell’esperienza, considerata non solo come modalità di risparmio e per vivere i luoghi quando meno affollati, ma anche per assicurare turismo tutto l’anno alle destinazioni scelte.
Quarta tendenza, ‘Longevity’. Il viaggio enogastronomico diventa occasione per dedicarsi al proprio benessere: il 71% degli italiani vorrebbe trovare menu con ricette che fanno bene alla salute. E l’ambito rurale costituisce il luogo ideale dove staccare dalla routine giornaliera e tecnologica (62%), e dalla confusione delle città.

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Di notte, nei weekend, nei festivi: gli italiani lavorano in orari antisociali

Sono davvero moltissimi gli italiani che lavorano in orari “antisociali”, ovvero in momenti completamente sfalsati rispetto agli orari diffusi fra la maggior parte della popolazione. E’ uno dei dati emerso dall’indagine Inapp (Istituto Nazionale per l’Analisi delle Politiche Pubbliche) ‘Plus’ (Participation, Labour, Unemployment Survey), che ha coinvolto 45mila persone dai 18 ai 74 anni. Si scopre così che sono oltre 3 milioni i lavoratori che proseguono le loro occupazioni anche durante la notte e nei giorni di festa.

Quasi il 19% degli occupati è attivo anche di notte 

Entrando nel merito della survey, si scopre che il 18,6% dei dipendenti lavora sia di notte che nei festivi (circa 3,2 milioni di persone), il 9,1% anche il sabato e i festivi (ma non la notte), e il 19,3% anche la notte (ma non di sabato o festivi). Gli uomini lavorano sia di notte che nel fine settimana e nei festivi, mentre le donne lavorano maggiormente il sabato o i festivi. Ma nella ricerca ci sono anche altre sorprese. Ad esempio, il report evidenzia che 1 dipendente su 6 (15,9%) svolge straordinari non retribuiti, un dato che assume proporzioni significative se pensiamo che gli straordinari interessano 6 occupati su 10 (60%), soprattutto uomini (64,7% contro il 54,1% delle donne). E se consideriamo che l’8,1% degli intervistati dichiara di non poter rifiutare di prestare l’extra-lavoro.

Gli uomini hanno più autonomia delle donne

Numeri che nell’insieme rivelano un più generale problema della regolazione dei tempi di vita e di lavoro, confermato anche dalla rigidità sottolineata dal Rapporto ‘Plus’ per quanto riguarda i permessi: il 21,3% degli occupati (circa 4,7 milioni) dichiara di non poter o non voler prendere permessi per motivi personali, il 54,8% può prenderli e il restante 23,9% può modulare l’impegno lavorativo. Gli uomini hanno una maggiore autonomia, mentre per le donne emerge la pressione di un contesto che disincentiva l’uso dei permessi. E sono soprattutto gli autonomi che svolgono la propria attività in condizione di para-subordinazione a dichiarare che nei propri contesti di lavoro o non sono previsti permessi o non è ben visto prenderli.

Un modello organizzativo da superare

“Mentre altrove si discute, e si avviano sperimentazioni, di orario ridotto o settimana corta – dichiara il professor Sebastiano Fadda, presidente dell’Inapp – nel nostro Paese restano ancora da superare vecchi modelli di organizzazione del lavoro che incidono pesantemente sui tempi di vita. Il mondo del lavoro è sempre più digitale, veloce, in costante evoluzione, ma per gran parte dei lavoratori “tradizionali” si presentano problemi ancora irrisolti sul piano della distribuzione degli orari di lavoro”.

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Gli italiani e la TV: un rapporto indissolubile ma in evoluzione

Secondo il Trend Radar di Samsung, realizzato in collaborazione con l’istituto di ricerche Human Highway, il 64% degli utenti oggi utilizza lo schermo TV come un vero e proprio portale da cui accedere a contenuti on-demand, in streaming e online. Grazie all’alto tasso di innovazione tecnologica ora la TV è considerata come un supporto smart che va oltre la semplice trasmissione di programmi. In un contesto rinnovato da nuove abitudini affermate in seguito alla pandemia, lo schermo della TV riafferma quindi il proprio potenziale, e diventa un hub sempre più dinamico e poliedrico attraverso il quale fruire di molteplici contenuti, e gestire varie attività. Quanto al valore estetico e di design dello schermo, il 61% della Gen Z lo ritiene un fattore importante nella scelta di un televisore.

Per il 77% degli italiani la TV è smart

Lo schermo TV ha diversificato le proprie funzioni, staccandosi dal vecchio immaginario di prodotto votato alla sola visione. La svolta obbligata dall’emergenza sanitaria ha spinto gli italiani a vivere maggiormente gli ambienti domestici, complice anche la più ampia disponibilità di contenuti on-demand e in streaming fruibili dagli Smart TV, ormai la principale TV di casa per il 77% degli italiani. Con la successiva definizione della roadmap governativa indicata in vista dello switch-off, che pone il nuovo orizzonte per l’adozione della nuova TV digitale al 20 dicembre 2022, le TV sono anche al centro di un processo di rinnovamento tecnologico, che ha spinto il 73% degli italiani a dotarsi di un nuovo apparecchio negli ultimi cinque anni.

Collegare allo schermo di casa la console di gioco

Il ruolo dinamico della TV come hub da cui gestire diverse attività si evince anche dalla scelta degli utenti di collegare allo schermo di casa i propri dispositivi di intrattenimento, tra cui le console di gioco (46%), soprattutto per il 63% dei Gen Z e per il 56% dei Millennials. Il gaming si posiziona infatti all’interno dei tre contenuti maggiormente riprodotti degli italiani, preceduto solo dalla riproduzione di video di YouTube (49%) e dall’ascolto di musica in streaming, che accompagna il 38% degli italiani. Una donna su cinque, invece, sceglie di utilizzare la TV per dedicarsi al proprio benessere, avvalendosi dello schermo per seguire lezioni di fitness o di yoga (20%), o come sottofondo (66%).

Un punto cardine dell’ambiente casalingo

Il cambio di paradigma spingerà sempre più utenti a considerare la TV come un punto cardine dell’ambiente casalingo. Al 70% degli intervistati, ad esempio, piacerebbe che aiutasse nel controllo dei consumi elettrici della casa, ricevendo sullo schermo anche consigli su come risparmiare. Ma la TV potrebbe anche diventare un collettore dello status di funzionamento degli altri elettrodomestici o apparecchi connessi (59%). Tra le altre possibilità, anche quella di essere avvisati e ricevere notifiche quando lavatrice o lavastoviglie hanno terminato i rispettivi cicli (54%), o quando nel frigorifero mancano determinati alimenti (51%).

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Record di vendite per i prodotti a etichetta “sostenibile” 

Lo conferma l’ultima edizione dell’Osservatorio Immagino di GS1 Italy: la sostenibilità comunicata sulle etichette dei prodotti di largo consumo premia le vendite nei supermercati e gli ipermercati.
“Siamo di fronte a un universo di valori in veloce evoluzione e ampliamento, che coinvolge un numero crescente di prodotti – spiega Marco Cuppini, research and communication director di GS1 Italy -. L’offerta di prodotti con almeno un claim sulla sostenibilità in etichetta è aumentato del +5,3%, mostrando come le aziende siano impegnate su questo fronte e come scelgano di comunicarlo sempre più spesso ai consumatori”.
Il 25,6% dei prodotti a scaffale presenta on-pack uno dei 35 claim sulla sostenibilità rilevati, e nel 2021 queste 32.787 referenze (tra food, bevande, cura casa, cura persona e prodotti per animali domestici) hanno realizzato 12,5 miliardi di euro di vendite (+1,2%).

I cluster tematici dei 35 claim della sostenibilità

I 35 claim del mondo della sostenibilità sono stati suddivisi in quattro cluster tematici. Nel primo, Management sostenibile delle risorse (tra cui ‘riciclabile’, ‘meno plastica’ e la certificazione Ecolabel) sono stati individuati sull’11,8% dei prodotti. Il loro apporto al sell-out complessivo è del 19,2% e il loro giro d’affari è aumentato del +3,0% rispetto al 2020. Per Agricoltura e allevamento sostenibili, il 10,5% dei prodotti rilevati presenta in etichetta uno dei nove claim di quest’area (ad esempio, ‘senza antibiotici’ o ‘filiera’). La quota sulle vendite totali è del 7,8% e la crescita annua del sell-out +1,1%.

Dalla Responsabilità sociale al Rispetto degli animali

Le cinque certificazioni del paniere Responsabilità sociale (come FSC, Rainforest Alliance e Fairtrade) accomunano il 6,5% delle referenze, che contribuiscono per il 10,6% alle vendite complessive. Il trend annuo a valore è +3,5%. Inoltre, il 2,4% dei prodotti presenti in supermercati e ipermercati dichiara esplicitamente sulle confezioni l’impegno a tutela degli animali, utilizzando almeno uno dei sei claim rilevati nel cluster Rispetto degli animali ( ‘benessere animale’, ‘no cruelty’ o la certificazione ‘Friend of the Sea’). Complessivamente il loro apporto al sell-out totale è del 4,4% e la crescita +1,6%.

I panieri più dinamici: responsabilità sociale e management sostenibile delle risorse

Nel corso del 2021 i panieri più dinamici nel mondo della sostenibilità sono stati quello della responsabilità sociale e quello del management sostenibile delle risorse, le cui vendite sono cresciute a un tasso triplo rispetto alla media. Sopra media anche l’andamento annuo del paniere della responsabilità sociale, mentre di poco sotto media è stato il cluster di agricoltura e allevamento sostenibili. In termini di numero di prodotti a scaffale l’indicazione ‘green’ più presente in etichetta si conferma Biologico/EU Organic (10,1% delle referenze), seguita dalla certificazione FSC (5,2%) e dai claim ‘sostenibilità’ e ‘riciclabile’ (entrambi 2,9%). Quanto all’andamento delle vendite, i claim che hanno registrato i maggiori aumenti sono stati le certificazioni Ok-Compost (+35,3%) e Rainforest Alliance (+16,3%) e le indicazioni Mater-Bi (+19,4%) e ‘compostabile’ (+16,6%).

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Le strategie del Design Thinking per ridefinire la complessità

Analogical Reasoning (ragionamento analogico), Associative Thinking (pensiero associativo) e Abductive Reasoning (ragionamento abduttivo) sono le tre logiche creative che permettono di affrontare le sfide dell’innovazione. Si tratta del Design Thinking, e lo studio dell’Osservatorio Design Thinking for Business della School of Management del Politecnico di Milano, mostra come queste tre logiche vengono adottate a seconda della sfida di innovazione che ci si trova a dover fronteggiare.
In tempi straordinari come quelli che stiamo vivendo, il Design Thinking può infatti dare un aiuto e una risposta, portando alla ridefinizione dei problemi tramite logiche creative che aiutino a capirne meglio la natura, e a trovare nuove soluzioni.

Accompagnare le aziende nel processo di innovazione

“Nei progetti innovativi la sfida da affrontare non è mai ben definita – afferma Claudio Dell’Era, Direttore dell’Osservatorio Design Thinking for Business -. È necessaria una maggiore comprensione. Lo scopo del Design Thinking è proprio quella di accompagnare per mano aziende e manager nel processo di innovazione, ridefinendo il reale e dandogli una nuova cornice. Tutto ciò nella consapevolezza che nel definire e ridefinire il problema, non si sta perdendo tempo, anzi si sta già approcciando la risoluzione delle sfide stesse”.

Come utilizzare le tre logiche creative

Il ragionamento analogico descrive come gli individui estraggano la conoscenza da una fonte e la trasferiscano a un obiettivo. Il pensiero associativo consiste invece nel creare e trovare link tra informazioni e conoscenze distanti che non sono collegate. Il ragionamento abduttivo crea nuova conoscenza attraverso la formazione di ipotesi esploratorie che pongono proposte plausibili di spiegazione, con lo scopo di conciliare le differenze tra diverse informazioni e conoscenze. Tutte e tre le logiche ottengono risultati simili quando il problema da affrontare è ben definito, ma il ragionamento analogico mostra valori significativamente inferiori nelle sfide dell’innovazione mal definite, in cui invece le operazioni di estrazione delle differenze, trasformazione dell’insieme di informazioni e costruzione immaginativa, appaiono particolarmente utili.

Aiutare manager e imprenditori a gestire sfide sempre più complesse

In un problema ben definito, invece, il ragionamento abduttivo è percepito come prezioso ed efficace, e soprattutto le operazioni di costruzione immaginativa di scenari what-if sono tra le più efficaci, e con molteplici spiegazioni possibili.
Le logiche creative sono perciò caratterizzate da una serie di operazioni creative che si differenziano a seconda delle logiche stesse.  A fronte di sfide di innovazione che differiscono per definizione e predisposizione all’innovazione, le logiche creative che abilitano e supportano i processi di Design Thinking nel fare framing e reframing cambiano per appropriatezza e valore. Questo aiuta manager e imprenditori che affrontano sfide sempre più complesse a gestirle e comprenderle meglio, facilitando quindi una riflessione iniziale che aiuta a valorizzare poi il processo risolutivo.

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Lavoro, Great Resignation? No, grazie

Gli italiani dicono no alla Great Resignation, le dimissioni ‘al buio’ per cercare un altro impiego. Il 56,2% degli occupati non è infatti propenso a lasciare il proprio lavoro, convinto che non ne troverebbe uno migliore. Percentuale che sale al 62,2% tra i 35-64enni e al 63,3% tra gli operai.
Se è vero che nei primi nove mesi del 2021 sono 1.362.000 le dimissioni volontarie registrate, +29,7% rispetto al 2020, proprio nel 2020, con il mercato del lavoro paralizzato a causa del Covid, si era verificato un picco negativo di dimissioni: solo 1.050.000 nei primi tre trimestri (-18,0% rispetto al 2019). Secondo il 5° Rapporto Censis-Eudaimon sul welfare aziendale si conferma però un trend di più lungo periodo di crescita delle dimissioni, legato soprattutto all’aumento della precarietà dei rapporti di lavoro.

Il pragmatismo vince sulla tentazione dimissioni

Tra i lavoratori italiani il pragmatismo vince sulla tentazione della Great Resignation, fa più paura l’idea di ritrovarsi impantanati nella precarietà. Eppure l’82,3% (86,0% giovani, 88,8% operai) si dice insoddisfatto della propria occupazione e pensa di meritare di più. Infatti il 58,1% ritiene di ricevere una retribuzione non adeguata, percezione confermata dalle statistiche ufficiali: negli ultimi vent’anni le retribuzioni medie lorde annue si sono ridotte del 3,6% in termini reali. Pensando alla propria occupazione, il 68,8% si sente poi meno sicuro rispetto a due anni fa (72,0% operai, 76,8% donne). E nell’ultimo biennio il 66,7% (71,8% tra i millennial) ha vissuto uno stress aggiuntivo per il lavoro, e il 73,8% teme che in futuro dovrà fronteggiare nuove emergenze lavorative.

Il digitale non è stato indolore

Per il 51,3% degli occupati il proprio lavoro è cambiato molto durante la pandemia. Il digitale è stato determinante, ma non indolore. Complessivamente il 58,0% ha riscontrato difficoltà nell’utilizzo dei dispositivi digitali, in particolare, nella partecipazione ai meeting online (55,3%) e con la posta elettronica (46,1%). Sullo smart working poi i lavoratori italiani si dividono: il 25,1% non vorrebbe farlo, il 32,9% vorrebbe proseguire, il 42,0% opterebbe per una soluzione ibrida.
In ogni caso, il tempo di lavoro si è dilatato: il 39,7% degli occupati afferma di non disporre di sufficiente tempo libero (45,1% tra gli esecutivi), e il 23,0% prevede un ulteriore peggioramento nel futuro.

Come colmare il deficit di motivazione

Le richieste alle aziende sono chiare: il 91,2% dei lavoratori vorrebbe retribuzioni più alte, l’86,5% più servizi di welfare aziendale, e il 75,2% un maggiore supporto nel rispondere ai bisogni sociali.
Intanto aumentano le imprese che puntano sugli strumenti del welfare aziendale. Per il 62,5% di un panel di responsabili delle risorse umane di grandi imprese il welfare aziendale è una priorità, e il 71,9% si dice pronto ad attivare servizi ad hoc per rispondere ai bisogni dei lavoratori.
Piani di welfare ‘su misura’, fatti di servizi e supporti personalizzati, disegnati sui bisogni del singolo lavoratore, possono infatti dare un contributo decisivo alla domanda di riconoscimento dei lavoratori, stimolando un diverso rapporto con il lavoro e l’azienda.

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