Ambiente: anche il denaro contante inquina

È quanto emerge dal Rapporto 2024 della Community Cashless Society, piattaforma creata da The European House – Ambrosetti (TEHA): la salute del Pianeta passa anche da come paghiamo quello che compriamo. Si, perché il denaro contante inquina il 21% in più del digitale.

Se, a sorpresa, il primo Paese in Europa dove il contante inquina di più è la Germania, l’Italia è al secondo posto per quantità di emissioni generate dai pagamenti con banconote e monete, che ammontano a circa 2,7 kg a testa, per un totale di oltre 160,8 mila tonnellate di Co2.

Per il Cash Intensity Index l’Italia non è ancora abbastanza cashless 

In Italia i pagamenti cashless faticano ad attecchire per ragioni culturali, pregiudizi, e in alcuni casi, anche per ragioni molto poco nobili, come il ‘nero’. 
Secondo un’elaborazione di TEHA, l’Italia nel 2023 è ancora tra le 30 peggiori economie al mondo su 144 per dipendenza dal contante.

Esiste infatti un indicatore apposito, il Cash Intensity Index, che mette in relazione l’incidenza di banconote e monete rispetto al Prodotto Interno Lordo (PIL) dei principali Paesi. L’anno scorso, l’Italia è passata, peggiorando, dal 29° al 28° posto.

Il ciclo di vita del denaro fa male all’ambiente

Ma perché il contante inquina? I motivi sono molti e riguardano il ciclo di vita del denaro, a cominciare dalla produzione delle banconote, che richiede materie prime quali rame, nichel e acciaio, la cui estrazione consuma molta energia e risorse naturali, provocando allo stesso tempo danni all’ambiente e generando emissioni di gas serra.
Per realizzarle, inoltre, sono necessarie sostanze chimiche tossiche, che diventano scarti altrettanto tossici da gestire.

Si prosegue con il trasporto e la distribuzione, che provocano Co2, e si finisce con lo smaltimento, altro momento critico visto che le banconote logore e distrutte, da sostituire, diventano un rifiuto speciale che va trattato con particolari accorgimenti.

L’impronta ambientale media delle banconote

La Banca d’Italia, nel suo annuale Report di Sostenibilità, dedica un capitolo proprio a questi aspetti e alle azioni messe in atto per ridurre l’impatto ecologico del contante.
La BCE ha calcolato che l’impronta ambientale media dei pagamenti mediante banconote nel 2019 è stata pari a 101 micropunti (μPt) per cittadino dell’area euro. Una cifra equivalente a 8 km percorsi in auto.

Dal Rapporto TEHA, riporta Adnkronos, emerge che in Italia il cashless sta accelerando. Ma ci sono ancora molte resistenze ad abbandonare il contante. Una survey condotta in occasione del report su 500 esercenti indica che 8 su 10 accettano i pagamenti digitali, e che la spinta viene dai clienti. Il 58% ha introdotto forme immateriali di pagamento proprio per soddisfare le richieste degli acquirenti e non per iniziativa propria.

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Qs Rankings Europe 2024: 4 atenei italiani nella top 100

Se sono solo 4 gli atenei italiani presenti nella top 100 del Qs Rankings Europe 2024: Politecnico di Milano, Sapienza di Roma, e università di Bologna e di Padova. Nella classifica europea delle migliori università stilata da QS Quacquarelli Symonds l’istituzione milanese si piazza però al 47° posto nel ranking generale, ed è l’unico ateneo italiano a figurare tra le prime cinquanta. La Sapienza di Roma e le università di Bologna e Padova si posizionano tra le prime cento. Ma nell’indicatore relativo alla produttività dei ricercatori l’Italia occupa ben 25 posizioni tra i primi cento posti, superando Francia e Germania, che registrano 13 atenei ciascuno in questa fascia.

Da Bari a Bolzano le italiane più apprezzate dalla comunità accademica internazionale

Tra gli altri atenei italiani che si sono distinti in ognuno dei dodici indicatori della classifica, Ca’ Foscari – Università di Venezia occupa l’apice nazionale per il numero di studenti in scambio in uscita, seguita dall’Università Cattolica del Sacro Cuore, al 6° posto nella medesima categoria. Il Politecnico di Bari si mette invece in luce per la produttività dei suoi ricercatori e la Sapienza è particolarmente apprezzata nella comunità accademica internazionale, oltre ad avere una vasta rete di ricerca globale e ottime prospettive occupazionali per i suoi laureati. Il Politecnico di Milano si distingue inoltre come il più apprezzato dai datori di lavoro internazionali, e come punto di riferimento per attrarre studenti internazionali in scambio. E se l’Università Vita-Salute San Raffaele brilla per il rapporto ottimale tra docenti e studenti, il notevole impatto della sua ricerca e le citazioni per pubblicazione scientifica, la Libera Università di Bozen-Bolzano si fa notare per l’alta proporzione di docenti internazionali.

Produttività dei ricercatori: spiccano i tre Politecnici italiani

Nell’indicatore relativo alla produttività dei ricercatori, a livello nazionale, sono i tre Politecnici di Bari, Torino e Milano a spiccare, seguiti dall’Università di Napoli Federico II e dall’Università di Firenze, che completano la top 5 italiana. Inoltre, l’Università di Milano-Bicocca si colloca tra le prime 150, mentre l’Università di Trento registra il terzo miglior punteggio a livello nazionale.

Sostenibilità: Università di Padova in testa alla classifica italiana

Per quanto riguarda l’indicatore di sostenibilità, che valuta l’impatto ambientale e sociale delle università, nonché la ricerca e l’insegnamento in questo ambito, è l’Università di Padova a guidare la classifica italiana, seguita dall’Università di Milano e dalla Sapienza. Come evidenzia poi un sondaggio che ha raccolto risposte da oltre 144.000 partecipanti, riporta AGI, di tutte le università italiane 16 si collocano tra le prime 200 in Europa per la reputazione guadagnata all’interno della comunità accademica internazionale. La Sapienza e l’Università di Bologna figurano tra le prime 20, apprezzate da accademici di tutto il mondo, e il Politecnico di Milano si posiziona tra le prime 30, mentre l’Università di Padova è tra le prime 50 a livello europeo.

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Diete: un mercato da 14 miliardi di euro l’anno

La fine delle festività di Pasqua e il ponte del primo maggio, il rialzo delle temperature e l’avvio della bella stagione spinge ogni anno una fetta consistente di popolazione a modificare le proprie abitudini alimentari. Obiettivo: perdere peso e migliorare il proprio aspetto fisico. Circa 16 milioni di italiani si metteranno quindi a dieta per la fatidica ‘prova costume’ e arrivare pronti al periodo estivo, generando un business da oltre 14 miliardi di euro. Lo afferma la Società Italiana di Medicina Ambientale (Sima).
Di fatto, secondo l’Italian Barometer Obesity Report, in Italia le persone in eccesso di peso sono più di 25 milioni, e circa 6 milioni, pari al 12% della popolazione, è a tutti gli effetti obeso, con una incidenza maggiore al Sud (14%) rispetto al 10,5% del Nord-Ovest e del Centro.

Farmaci dimagranti: +25% nei primi tre mesi del 2023

In Italia il mercato del cibo dietetico, ossia quei prodotti presentati al pubblico come a basso contenuto calorico, con pochi zuccheri o privi di zuccheri aggiunti, e senza grassi, vale più di 14 miliardi. E sempre secondo Sima, solo per gli integratori alimentari la spesa nel nostro paese ha raggiunto 4 miliardi di euro. Al tempo stesso si impenna la vendita dei farmaci per la perdita del peso, che a livello globale e secondo i numeri ufficiali, registrano un aumento del +25% solo nel primo trimestre del 2023.

No alle diete “fai da te”

“Il 75% di coloro che inizieranno una dieta alimentare ricorrerà tuttavia al ‘fai da te’, reperendo informazioni sul web e modificando le proprie abitudini a tavola senza rivolgersi a un professionista del settore – afferma il presidente Sima, Alessandro Miani -. Un rischio sul fronte della salute, considerato che una dieta sbagliata e sbilanciata può avere sul nostro organismo ripercussioni serie, che vanno dal semplice affaticamento e mal di testa ai disturbi del sonno, crampi o perdita di massa muscolare, fino a poter causare problemi renali, nel caso delle diete iper-proteiche sbilanciate, e malnutrizione”.

Un’alimentazione sbagliata costa circa 13 miliardi di euro l’anno

“E non è certo un caso se, in base ai numeri ufficiali, solo in Europa 950 mila persone perdono ogni anno la vita a causa di diete alimentari sbagliate e malsane – spiega all’Ansa Alessandro Miani -. Occorre inoltre ricordare gli ingenti costi sociali determinati dall’alimentazione sbagliata, che incide fino al 10% sulla spesa sanitaria pubblica, con un impatto sulle casse statali di circa 13 miliardi di euro annui”. 

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L’inflazione non ferma i collezionisti italiani

I collezionisti italiani non sembrano temere l’aumento dei prezzi: il 70% dichiara che nel 2023 spenderà lo stesso budget, o anche di più, per le proprie passioni. Non solo, il 44%, e addirittura il 57% tra i giovani della Gen Z, considera una collezione un buon investimento, comparabile ad altri metodi, come risparmi bancari o investimenti immobiliari. Insomma, se è vero che durante i periodi in cui l’inflazione è più alta i consumatori tendono a ridurre le spese, questo non vale per i collezionisti, che in Italia sono il 74%. Lo conferma la ricerca commissionata da Catawiki a YouGov, dal titolo Il comportamento dei collezionisti in Europa.

Cosa determina il valore di un oggetto

Il 74% dei collezionisti afferma di possedere da una a tre collezioni, il 23% una, il 28% due, il 23% tre, e il 10% ne ha addirittura più di 5. Per gli italiani, il valore di un oggetto è determinato (48%) dal fatto che riflette la loro passione o perché ha un valore emotivo o sentimentale (36%). Se per tutti il driver principale è la passione, diverse sono le motivazioni che spingono le differenti generazioni a iniziarne una. Per Boomer e Gen X è l’influenza della famiglia, per i Millennials la cerchia di amici, mentre per i Gen Z giocano un ruolo importante celebrities/influencer e i social media.

I più collezionati: monete, francobolli, libri, fumetti, giocattoli, modellini

Si collezionano principalmente tre categorie di prodotti, monete e francobolli (22%), libri e fumetti (14%), giocattoli e modellini (10%). Quanto alle differenze generazionali, i Boomer preferiscono collezionare francobolli e orologi, i Millennials fumetti, mentre la Gen Z, più degli altri, predilige memorabilia sportivi e gioielli. Le ultime due generazioni condividono anche la passione per tutti gli oggetti relativi alla categoria ‘Intrattenimento, Carte e Giochi’. E alla domanda ‘Se avessi più soldi, cosa collezioneresti??, gli italiani non hanno dubbi: orologi (14%), gioielli o pietre preziose (11%), diamanti e libri (8%). Tra le categorie che non collezionerebbero mai, oggetti virtuali (24%) e NFT (23%).

Un valore che tende a crescere nel tempo

Ogni collezione ha un valore diverso, ma in linea di massima le collezioni valgono circa 1000 euro. Per il 12%, però, tale valore è stimato tra i 5.000 e i 50.000 euro, e un 2% di collezioni vale oltre 50.000 euro. Ed è un valore che come ogni bene raro e unico tende a crescere nel corso del tempo, riporta Adnkronos. Il 45% ha visto infatti il valore aumentare negli ultimi anni. Di quanto? Tra il 25% e il 50% (34%), tra il 50 e il 100% (18%) e il 9% ha visto la propria collezione acquisire un valore più del doppio di quello iniziale. Le collezioni, infatti, oltre a essere un investimento che talvolta può generare anche buoni guadagni (per il 34% vendere oggetti delle collezioni è fonte di reddito o profitto), rende più o ugualmente dei risparmi bancari (50%), e per il 36% rende addirittura più degli investimenti immobiliari.

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Aumentano gli investimenti per attrarre talenti, ma non per trattenerli

Il Talent Trends Report di Randstad Sourceright ha individuato i 10 trend nella gestione delle risorse umane per il 2023 in 18 Paesi del mondo, tra cui l’Italia. E a quanto emerge le imprese italiane sembrano più attente all’attraction di talenti piuttosto che alle iniziative di retention. In un mondo del lavoro caratterizzato dalla ‘talent scarcity’, quasi tutte le imprese italiane stanno rielaborando i propri piani per le risorse umane. Con alcuni importanti passi avanti nelle strategie di attrazione del personale, ma anche con alcune carenze nella creazione della ‘talent expertise’, e scarsi investimenti in formazione e benessere dei dipendenti.

Solo il 23% delle aziende italiane ha potenziato la talent experience

Le risposte del Talent Trends evidenziano una visione un po’ ambigua da parte degli Hr italiani riguardo ai principali trend del settore. Nel nostro Paese i responsabili delle risorse umane si dichiarano fortemente impegnati in azioni di talent acquisition, con il 94% che manterrà o aumenterà gli investimenti per l’employer branding, e il 73% che ha realizzato strategie del personale basate sul creare valore totale per l’organizzazione piuttosto che sul ridurre i costi. Ma, alla prova dei fatti, solo il 23% delle aziende italiane, percentuale in grave ritardo rispetto al 76% a livello globale, ha potenziato negli ultimi 12 mesi la talent experience sulla base dei fattori che favoriscono l’attrazione, la fidelizzazione, il coinvolgimento e la mobilità professionale.

Aiutare i lavoratori a esprimere il proprio potenziale

Il 75% degli Hr italiani oggi dà maggiore importanza rispetto al passato alle competenze e al coinvolgimento dei dipendenti, ma solamente il 14% sta investendo in piattaforme di formazione per attrarre talenti, molto indietro rispetto al 63% rilevato a livello globale. Per circa un terzo degli Hr italiani (29%, una percentuale in linea con gli altri Paesi, 25%), poi, i licenziamenti hanno avuto un impatto negativo e il 23% offre ai propri dipendenti servizi di outplacement per superare questo problema.

Diversity&Inclusion, benessere e sicurezza e sostenibilità

Per attrarre nuovi talenti e offrire un’esperienza lavorativa significativa, quasi 7 Hr su 10 in Italia considerano determinanti le strategie di Diversity&Inclusion della loro azienda, tuttavia il 39% di loro teme che saranno meno prioritarie nel 2023. Inoltre, finita l’emergenza della pandemia, solo il 27% dei leader Hr spenderà di più in programmi di benessere e sicurezza (contro il 54% mondiale), mostrando un evidente gap rispetto alla media degli altri Paesi. Inoltre, riporta Adnkronos, c’è la diffusa consapevolezza che adottare pratiche etiche e sostenibili consenta di attirare talenti della Generazione Z, ma il 58% dei talent leader teme che la sostenibilità possa avere un impatto negativo sulla redditività, e il 56% che l’azienda possa considerarla meno prioritaria in caso di crisi economica.

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Google Trends 2022: cosa hanno cercato gli italiani?

Le tendenze di ricerca su Google nel 2022 mostrano chiaramente la necessità di capire cosa succede intorno a noi, le motivazioni di un conflitto e delle personalità che lo hanno scatenato. Ma c’è anche l’interesse ricorrente verso momenti di maggiore ironia e leggerezza, cercati nello sport, dal calcio al tennis, e nei suoi protagonisti, e anche nella musica, che combacia con un momento importante per gli italiani come il Festival di Sanremo. Il 2022 volge al termine, e Un Anno di Ricerche su Google mostra la lista delle parole, delle domande e delle curiosità che gli italiani hanno cercato online sul motore di ricerca. Dai Google Trends 2022 emerge anche l’interesse per le personalità che, venendo a mancare, hanno lasciato un segno seppur in forme diverse, da una parte la Regina Elisabetta e dall’altra Piero Angela.

Ucraina, la Regina Elisabetta e le Elezioni 2022

Dalle domande che gli italiani si sono fatti in questo 2022, si nota l’esigenza di trovare spiegazioni a problemi pratici della vita di tutti i giorni, come le diverse agevolazioni dello Stato o la compilazione dell’Assegno Unico, ma anche domande che riportano al dramma della pandemia, legate al tampone o al green pass. I nostri ‘Perché?’ portano con sé però anche l’interesse a rispondere a domande più profonde, come la guerra o l’aumento del costo della benzina. Temi che hanno davvero caratterizzato questi mesi.
Di fatto, le 10 Parole dell’anno più googlate sono state Ucraina, al primo posto, seguita da Regina Elisabetta, Russia Ucraina, Australian Open, Elezioni 2022, Putin, Piero Angela, Drusilla, Italia Macedonia, e Blanco.

Putin, Drusilla e Piero Angela

Quanto ai Personaggi più cercati, al primo posto si posiziona Putin, seguito da Drusilla, Blanco, Sinner, Vlahovic, Djokovic, Berrettini, Dybala, Marco Bellavia, e ultima, Ornella Muti.
E gli Addii? In prima posizione, quello alla Regina Elisabetta, seguita da quello a Piero Angela, e poi a Mino Raiola, David Sassoli, Monica Vitti, Manuel Vallicella, Catherine Spaak, Anne Heche, Olivia Newton John e Ray Liotta.

Perché Draghi si è dimesso e Totti e Ilary si separano?

Quali sono i Perché posti dagli italiani durante il 2022? La prima domanda è perché la Russia vuole invadere l’Ucraina? Seguita da perché Pioli is on fire? E al terzo posto, perché aumenta la benzina?
La classifica continua con perché Draghi si è dimesso, al quinto posto perché il diesel costa più della benzina, e ancora, perché Totti e Ilary si separano, perché mezza dose moderna, Elettra e Ginevra hanno litigato, Lilli Gruber non è a Otto e Mezzo, e in decima posizione, perché Dybala lascia la Juve?

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Head hunter, come riconoscere le skills dei candidati

Come condurre un colloquio di lavoro in modo corretto e soprattutto come riconoscere le competenze di un candidato? A questi quesiti risponde Riverse, società di headhunting attiva a livello internazionale, che ha introdotto il cosiddetto Recruiting Collaborativo. All’interno di questo modello, l’head hunter viene affiancato da una figura specializzata, dello stesso settore del persona ricercata ma con una seniority maggiore, in grado quindi di guidare un’intervista al fine di esaminare e valutare le competenze hard del candidato. Spesso, infatti, le competenze vengono considerate come strettamente legate all’intelligenza delle persone, ed è un errore. In realtà, secondo lo psicologo statunitense McClelland, le capacità umane, che siano hard o soft, nascono da “schemi cognitivi e comportamentali operativi casualmente collegati al successo nel lavoro”. Ecco perché secondo Reverse, parlare la stessa lingua dei candidati ha ottime implicazioni anche a livello di candidate experience. La persona colloquiata infatti, oltre ad avere la possibilità di confrontarsi con un esperto del settore, vivrà la sensazione di sentirsi finalmente capita e l’intero processo ne trarrà beneficio.

Le capacità intangibili

Chi si occupa di ricerca del personale, che sia HR, Recruiter, Head Hunter, sa che deve spingersi oltre questo tipo di valutazione, concentrandosi anche sulle capacità intangibili dei candidati. Vediamo quali sono quelle attualmente più richieste. In primo luogo è importante cercare persone abili nel confrontarsi con tutte le cariche aziendali. Può sembrare banale ma, soprattutto in un momento in cui i rapporti umani sul luogo di lavoro sono sempre più mediati dalla tecnologia, è essenziale saper comunicare al meglio, esprimere un’opinione in modo chiaro e avere una spiccata capacità di ascolto, scrittura e negoziazione. Le modalità di lavoro fluide hanno presentato la necessità di individuare anche un’altra soft skill: essere capaci di lavorare in team, anche da remoto. Per gli esperti di ricerca del personale è quindi essenziale ricercare onestà, trasparenza, senso del dovere e doti di leadership.

Sapersi adattare ai cambiamenti

C’è poi la capacità di adattarsi ai cambiamenti, considerandoli come parte integrante della routine lavorativa e non come qualcosa da evitare a tutti i costi. Questo aspetto, oltre a considerare il contesto aziendale come mutevole, si riflette anche sui singoli progetti, dove il singolo è chiamato a individuare le criticità rispondendo in modo proattivo con soluzioni alternative. Si parla quindi di apertura mentale, pensiero laterale e di un’attitudine a captare stimoli provenienti dai settori più disparati, facendoli propri e traducendoli in idee innovative. Infine, in un processo di ricerca e selezione è bene intervistare il candidato per approfondire il tema della risposta allo stress, testando le sue reazioni e individuando le principali cause di tensione.

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Food&Beverage, gli italiani seguono i food influencer per i consigli culinari

Nell’ultimo anno i post sui social network a tema food sono aumentati del +57,4%, per un totale di 1,59 milioni di contenuti. Una crescita determinata probabilmente dal lockdown, che ha spinto gli utenti a dedicare più tempo alla cucina. Il 54% degli italiani, infatti, segue abitualmente i food influencer per i consigli culinari, e nuove celebrities allargano sempre più la propria platea di follower. Sono alcuni dati emersi dalla ricerca condotta a livello globale da Buzzoole, martech company specializzata in tecnologie e servizi per l’Influencer Marketing, su oltre 2 milioni di profili e 250 milioni di contenuti monitorati dalla piattaforma Buzzoole Discovery su Instagram, Facebook, Youtube, Twitter e TikTok nel 2020.

Il canale più utilizzato per condividere i contenuti è Instagram

I food influencer hanno un’audience per il 66,70% femminile, e per il 56,53% di età compresa tra i 18 e i 34 anni. Il canale maggiormente utilizzato per condividere contenuti è Instagram (75,64%), seguito da Facebook e Twitter. TikTok, in coda, ma sempre più in crescita, ha raggiunto 11.800 post solo nell’ultimo anno. Se sui social spopolano i video di ricette ‘step by step’ da poter replicare in casa anche la sostenibilità è un tema molto sentito. Tanto che sui social sono sempre più presenti consigli per evitare sprechi in cucina, e ricette per riutilizzare in modo creativo gli scarti alimentari.

Non soltanto chef o appassionati di ricette ma anche creator

Gli influencer coinvolti per le campagne di questo settore sono molto eterogenei per dimensione e tipologia, con follower base che vanno dai 10mila a più di 500mila follower, includendo spesso le Celebrity.  All’interno della categoria si trovano non soltanto chef o appassionati di ricette, ma anche creator che riescono a toccare discipline quali sostenibilità, sport, arte e intrattenimento. La maggior parte dei creator italiani in ambito food sono donne (60,57%) mentre gli uomini rappresentano circa un quarto del totale (39,43%). E se l’86% dei food influencer rientra nella categoria micro e medium (dai 10 mila ai 100 mila follower), il resto del mercato è composto da social star e celebrità.

Beverage, 311mila contenuti di cui il 56% ha come focus il vino 

Nell’ultimo anno anche il settore Beverage ha riscontrato molto interesse: i contenuti generati hanno raggiunto quota 311mila, con un incremento del +36% rispetto all’anno precedente. In particolare, il 56% dei contenuti ha come focus il vino, tema in forte crescita con un incremento del +29,10%. I wine influencer in Italia sono così popolari da rappresentare il 68% del totale dei creator che trattano di beverage. In generale, gli influencer italiani che parlano di drink sono principalmente uomini (56%), mentre le donne rappresentano oltre il 40%. L’audience è per il 64% femminile con un’età compresa tra i 25 e i 44 anni, e suddividendo per fasce di follower, se i Novice e Micro creator (10-30mila follower) risultano più numerosi (69,12%), le Social Star (più di 200mila follower) rappresentano il 4,78%.

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Specialità regionali, +6,4% di fatturato. Sul podio Trentino, Sicilia e Piemonte

Le specialità regionali diventano protagoniste nel carrello della spesa degli italiani, con un giro d’affari da 2,6 miliardi di euro, in crescita del 6,4% annuo. Nel corso del 2020 supermercati e ipermercati segnalano infatti oltre 9.200 prodotti food & beverage con l’origine di provenienza riportata in etichetta. Lo rileva la nona edizione dell’Osservatorio Immagino di GS1 Italy, secondo la quale al primo posto per valore delle vendite c’è il Trentino-Alto Adige (+7%) seguito da Sicilia (+5,1%) e Piemonte (+3,7%), che però è la regione presente sul maggior numero di prodotti (1.152 referenze). L’Osservatorio traccia una vera e propria mappa del regionalismo in tavola, dove per la prima volta compare anche la geografia delle vendite dei panieri regionali all’interno del territorio nazionale per individuare dove sono più apprezzati, riferisce Ansa.

I consumi regionali

Il sovranismo alimentare regna in Sardegna, Trentino-Alto Adige e Friuli-Venezia Giulia, mentre in Lombardia, Emilia-Romagna, Campania, Molise e Calabria i prodotti del territorio locale restano preponderanti e sviluppano più vendite rispetto alla media nazionale.
Ma ci sono anche regioni dove i prodotti locali non sono ai primi posti per incidenza sugli acquisti, come accade in Valle d’Aosta e Basilicata. Nel resto del paese il carrello della spesa è più interregionale.
Ad esempio, in Liguria il consumo dei prodotti piemontesi è superiore del 69% alla media italiana e quello dei prodotti campani lo è del 12%, mentre in Piemonte l’indice di allocazione dei consumi è maggiore per i prodotti liguri e per quelli pugliesi.

La classifica delle regioni in etichetta

Ancora una volta il primo posto, per valore delle vendite, spetta al Trentino-Alto Adige, grazie a un ampio paniere di prodotti, in particolare vini e spumanti, speck, yogurt, mozzarelle e latte. Una leadership che nel 2020 si è ancor più consolidata, sostenuta in particolare dall’apporto positivo di speck e vini. Il secondo posto va alla Sicilia, il cui paniere di specialità regionali (tra cui spiccano il vino, i sughi pronti e le arance) ha visto aumentare le vendite soprattutto grazie all’apporto di birre, arance, sughi pronti, passate di pomodoro e bevande gassate.

L’exploit del Molise

Al terzo posto per valore delle vendite si insedia il Piemonte, davanti a Sicilia e Toscana. Nel 2020 il paniere dei prodotti piemontesi, composto soprattutto da vini, formaggi freschi, carne, acqua minerale e latte, ha ottenuto un aumento delle vendite a cui ha contribuito soprattutto carne bovina, vini Docg, latte Uht, miele e mozzarelle. Confrontando l’andamento delle vendite realizzate nel 2020 con quelle dell’anno precedente, emerge che i panieri regionali più dinamici sono stati quelli di Puglia (+14,4%) e Calabria (+12,5%), seguiti da quelli di Veneto (+9,6%) Sardegna (+8,6%), Abruzzo (+8,5%) e Marche (+8,4%). Il fenomeno del 2020 è stato l’exploit del Molise, che continua a guadagnare spazio nel carrello della spesa degli italiani: l’anno scorso le vendite del paniere dei prodotti di questa regione sono cresciute del +24,8%, con la pasta di semola a fare da traino, riferisce brand-news.it.

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Modelli organizzativi: per il 47% manager non sono agili

Per competere e creare valore l’impresa deve essere dotata di un management agile, in grado di cambiare strategie e metodologie aziendali. Ora più che mai la crisi generata dalla pandemia impone un cambiamento dei modelli aziendali, ma il ricorso allo smart working non si è ancora tradotto in un nuovo paradigma d’impresa. Dall’indagine dal titolo La scacchiera del valore, realizzata da Federmanager in collaborazione con Fondirigenti, il fondo per la formazione condiviso tra Federmanager e Confindustria, emerge uno scenario incerto: circa il 47% dei manager coinvolti ritiene di operare in un panorama aziendale “intermedio”, in cui approccio ordinario e nuovi paradigmi si incontrano. Il 37,1% però riporta esperienze con aziende ancora tradizionali e verticistiche, e solo il 16% considera tale paradigma una realtà già attuale in diversi contesti italiani.

Puntare su innovazione, crescita delle competenze e sostenibilità

Secondo il modello elaborato da Federmanager un’organizzazione aziendale agile si differenzia dal telelavoro perché si basa su 4 pilastri, autonomia, responsabilità, monitoraggio dei risultati e crescita delle competenze.

“Il modello – sottolinea il presidente di Federmanager, Stefano Cuzzilla – rappresenta uno strumento utile e funzionale per i manager e le aziende, oggi al centro di una sfida senza precedenti, ovvero far ripartire il sistema produttivo ripensando i processi organizzativi e puntando su tre ambiti fondamentali: innovazione, crescita delle competenze e sostenibilità”.

Un sistema di devolved-decision making è considerato un’utopia

Sebbene lo smart working sta diventando protagonista delle analisi economiche e sociologiche degli ultimi mesi, si tratta di soluzioni prevalentemente di facciata. Secondo i manager la cosiddetta connected leadership è infatti un modello molto raro. Per il 31,4% di loro ciò si deve a un deficit di comunicazione degli obiettivi da parte del top management e per il 28,9% al fatto che le aziende vivono day-by-day e hanno una governance talmente frammentata da rendere impossibile la conoscenza degli intenti strategici ai collaboratori e agli stessi manager. Un sistema di devolved-decision making, di delega e distribuzione delle responsabilità e  condivisione delle scelte strategiche, è considerato addirittura un’utopia per il 26,3% dei manager.

Un modello per transitare dallo smart working all’agile management 

Networking, lavoro in team e condivisione della conoscenza sono ritenuti elementi essenziali di un’organizzazione agile, e per il 56,8% dei manager sono ritenuti possibili, ma poco realistici. Colpa, in parte, della governance aziendale, poco propensa a sviluppare una leadership flessibile, facilitatrice e motivante. Per transitare dallo smart working all’agile management il modello Federmanager propone tre asset su cui investire: la filosofia aziendale deve abbandonare gli strumenti novecenteschi a favore di una maggiore fluidità, la strategia deve improntarsi a una pianificazione dei processi chiara e adattiva rispetto al contesto mutevole, riferisce Adnkronos, e la metodologia deve favorire la condivisione e lo scambio delle competenze all’interno dell’organizzazione.

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